Avete mai provato a bivaccare dentro un buco scavato nella neve a 2000 metri? Noi si! Quel che segue è il resoconto di questa agghiacciante (letteralmente) esperienza che abbiamo provato qualche anno fa. Chi vuole provare a cimentarsi troverà qui qualche utile indicazione. E’ una esperienza da provare almeno una volta nella vita. Anche perché difficilmente ci sarà una seconda volta
Cos’è una truna?
La truna è un bivacco di emergenza ottenuto scavando una buca nella neve. E’ adatta ad ospitare una o più persone coricate. Per due persone ha dimensioni di circa 2 metri di lunghezza per 1 metro e mezzo di larghezza, l’altezza interna è di circa 60-80 cm. A differenza dell’igloo, che richiede una perizia costruttiva nient’affatto banale e con cui non ha nulla a che vedere, la truna è abbastanza semplice da costruire. Si tratta in sostanza di una trincea coperta con un telo impermeabile, sostenuto da un intreccio di rami, sci e bastoni e ricoperto di neve. La truna così costruita offre (dicono) efficace riparo dal vento e dal freddo, permettendo la sopravvivenza all’aperto, con opportuno equipaggiamento, anche in condizioni ambientali critiche e con temperature sottozero. La truna può essere scavata anche in un consistente accumulo di neve, in questo caso prende il nome di tana di volpe. Riportiamo dunque la cronaca del nostro tragico esperimento realizzato in Val Calamento, in Lagorai, a circa 2000 metri di quota nel gennaio 2007.
Intronati in truna – 27-28 gennaio 2007
Il posto prescelto è la meravigliosa piana di Campìo a circa 1900 metri di quota, sotto l’imponente piramide del Monte Croce m 2490, nel Lagorai centrale, i cui crinali già “fumano” furiosamente facendo presagire la tragica nottata. Abbiamo scelto questo posto in quanto abbastanza strategico: isolato ma non troppo, raggiungibile in un paio di ore di marcia, con la vicinanza del riparo di Malga Cagnon se qualcosa dovesse andare storto. Le nuvole viaggiano come treni, in alta quota, arrivando da nord e scomparendo rapidamente dietro le creste.
L’auto è zeppa di attrezzatura come per una spedizione nell’artico, mancano solo le slitte coi cani. Dopo una laboriosa preparazione degli zaini, partiamo da Malga Valtrighetta e risaliamo la Val Calamento in sciotti (sci da escursionismo n.d.r.), la traccia è già battuta da scialpinisti e ciaspolari: la temperatura è rigida ma non troppo ma soprattutto a bassa quota non c’è vento.
Il paesaggio è strepitoso con gli abeti imbiancati da mezzo metro di neve fresca. Dopo il tratto boscoso restiamo ammirati arrivando nella splendida radura di Malga Bolenga. Mini-sosta e via a salire fino a Malga Cagnon di sotto, semisepolta di neve. Ultimo strappo nel traverso verso nord e quindi, dopo aver attraversato il boschetto di larici, sbuchiamo nella piana di Campìo, il luogo prescelto per fare questa benedetta truna. Precisiamo che siamo entrambi novizi assoluti (io e lei, cinquant’anni a cranio) e le nostre conoscenze riguardo alla costruzione sono esclusivamente teoriche, cioè leggiucchiate su internet. Tuttavia non ci manca tosto l’ardimento, unito ad una insana incoscienza.
Facciamo una rapida ispezione per trovare il posto migliore, costeggiamo la piana di Campiò sul margine sud-est, la neve è alta circa 60-80 cm. Cerchiamo di capire qual è la posizione più riparata dal vento. Poiché il vento prevalente viene da nord, decidiamo che l’apertura sarà a sud, perciò nella notte il vento girerà malignamente ed esattamente da sud, vale a dire nella direzione peggiore. Ma questo è un destino ineluttabile al quale è perfettamente inutile ribellarsi.
Alle ore 16.30 precise imbracciamo la pala e cominciamo a scavare di buona lena (cioè IO scavo). Primo errore clamoroso: non sondiamo bene il terreno per cui, dopo aver rimosso un paio di metri cubi di neve, troviamo con disappunto uno scalino di 30 cm. Poco male, scaveremo nella direzione contraria. Ma, neanche farlo apposta, ecco un’altra bella gobba nel terreno dura come il marmo. A questo punto la truna ha la forma di una “banana”, cioè con le estremità in alto e il centro in basso, tipo amaca. Il freddo si fa già pungente e le tenebre calano inesorabili, siamo anche un po’ stanchini e non abbiamo nessunissima voglia di scavare un’altra truna ex-novo. Cerchiamo di livellare alla meglio il pavimento e rifiniamo le pareti: la neve però è troppo polverosa e si sfarina, coi muri che tendono a crollare.
Misuriamo la larghezza della truna coi 2 materassini appaiati: è ancora un po’ stretta, allarghiamo di 10 cm. Massì esgeriamo: facciamo 30. Ed è il secondo tragico errore: quando apriamo il telo, che pareva enorme, scopriamo con orrore che arriva a malapena ai bordi della truna. Di scavarne un’altra con le dimensioni giuste, come s’è detto, non se ne parla proprio. Usiamo il telo in larghezza così guadagnamo qualcosa, in compenso diventa corto sul lato lungo della truna (pasticcioni!). Cerchiamo di bloccare il telo alla bell’e meglio con la neve, ma essendo farinosissima e polverosissima ce ne vogliono quintali. Per fortuna abbiamo un secondo piccolo telo, un poncho apribile che usiamo come “prolunga”. Facciamo un traliccio coi bastoni e gli sci, mettiamo i teli e scopriamo con raccapriccio che il tetto sotto al peso della neve rischia il crollo.
Cerchiamo di bloccare meglio il telo sui lati spalando montagne di neve. Sulla copertura superiore solo uno strato leggero, perché al di sotto si formano delle “pance” preoccupanti. La truna è troppo grande, i teli corti, chiuderla non si può perché la neve è troppo farinosa e non sta in piedi. Pazienza: “Dormiremo nel buco aperto!” ci diciamo con fierezza, in realtà vagamente preoccupati e simulando allegria con risate nervose. Mettiamo gli zaini all’entrata a mo’ di porta, come parziale riparo. Alle 18.39 la pseudo truna è finita: i teli svolazzanti la fanno somigliare ad una tenda di profughi: stracci dappertutto, dentro un casino allucinante tra zaini, maglioni, thermos, ghette, calzini, braghe, guanti e sacchi a pelo buttati alla rinfusa.
Tiriamo fuori i materassini “autogonfiabili” (maddeché), posizioniamo le stuoie e poi i sacchi. Fa già un freddo spaventoso e ci rifugiamo dentro la truna dando tremende zuccate sul soffitto, che nel frattempo si è solidificato per il gelo. Degli 80 cm originali, il soffitto per via delle pance s’è abbassato in altezza a soli 40 centimetri, e siamo costretti a strisciare dentro a sobbalzi come trichechi. Di mangiare non se ne parla perché nessuno ha voglia, non accendiamo neppure i “lumini da morto” (quelli rossi per le tombe, una brillante idea di Agh) che avevamo in dotazione per scaldare e rallegrare l’ambiente. Diamo fondo alle ultime sorsate di tè caldo nel thermos e buonanotte, perfettamente e tragicamente consapevoli di avere davanti una lunga e dura nottata.
Inutile farla tanto lunga, è stata durissima. Particolarmente spaventoso, per tutta la notte, il morso del freddo ai piedi, che parevano rosicchiati dai topi. Il vento gelido entrava con violente folate buttando dentro badilate di neve ghiacciata. Passiamo una nottata da incubo: gobbe moleste ci si conficcano nella schiena per via del pavimento sconquassato.
Per ben due volte mi sveglio che mi pare di avere un piede solo: l’altro non lo sento più! Per fortuna bastano delle smanazzate per ripristinare la circolazione. Cerchiamo di dormicchiare in qualche modo quando, dopo un periodo che pareva un’eternità, guardiamo l’orologio: sono le 8! Che avete capito, le otto di sera! Erano passate sole due ore. Momenti di sconforto. Altra sgradevole sorpresa: nel tentativo continuo di svoltolarsi per trovare una posizione meno scomoda, siamo presi continuamente da crampi, dal che capiamo che l’isolamento a terra è tutt’altro che perfetto. Guai ad allungare il braccio per cercare di massaggiarsi un piede o una gamba, polpacci e cosce si bloccano immediatamente in dolorose contrazioni. Dalla truna nel buio provengono a intervalli quasi regolari, per via dei crampi, degli “aaaarrghhh!” per quasi tutta la notte. Una notte agghiacciante, alla lettera. Si dorme male, malissimo, per brevi periodi, risvegliati dalle palate di neve gelata in faccia che il vento, manco lo facesse apposta, schiaffa dentro appena si piglia sonno.
Si guarda con pena infinita l’orologio, il tempo non passa mai. Tra una dormicchiata e l’altra “doppiamo” la mezzanotte con la stessa soddisfazione che deve aver provato Magellano doppiando il leggendario Cape Horn. Arrivano le 2, poi le 3, le 4, il sonno continuamente interrotto dall’ululato pauroso del vento e dai teli che sbatacchiano rumorosamente. Poi in una botta, forse per lo sfinimento, arrivano le 6. Resistiamo ancora eroicamente fino alle 7, nella vana attesa di un raggetto di sole per mettere fuori il naso. Macché, verso est una muraglia di nuvole impedisce il sorgere del sole sulla nostra tragica ghiacciaia.
Alle 8, impossibile resistere oltre, usciamo dalla disperazione. Tremenda è la vestizione con altre zuccate sulle “pance” del soffitto, per rimettere pantaloni e soprattutto scarpe. Quelle di Ansiak sono letteralmente due pezzi di ghiaccio, e i suoi piedi esattamente il doppio della sera prima. Col fornelletto e il lumino da morto cerchiamo di ammorbidire la tomaia, ma è un’impresa vana. Dopo molti tentativi, finalmente un piede entra nella scarpa accompagnato da un urlo soffocato. Nel tentativo di allacciare i lacci gelati Ansiak dà un poderoso tirone eee…. straaaappp! Le resta il laccio in mano. Attimi di sgomento. Si provvede alla bisogna con un rappezzo di spago trovato in fondo ad uno zaino. Grazie al geniale suggerimento di AGH di usare la pala come calzascarpe, entra miracolosamente con un grido anche l’altro piede.
La bottiglietta da mezzo litro di Teroldego che abbiamo lasciato fuori dal bivacco, e che in teoria doveva servire per il brulè la sera prima, è un blocco di ghiaccio. I lacci delle scarpe sembrano fil di ferro e stanno su dritti come per uno spavento; facciamo la “foto simbolo” della gita.
Decidiamo di sbaraccare e di raggiungere la vicina Malga Cagnon di Sopra, dove potremo sistemare meglio i nostri stracci e le varie masserizie. Ansiak ha uno zaino enorme e sembra una straccivendola in trasferta. In mattinata per fortuna esce un sole meraviglioso e la temperatura sale di brutto, facciamo l’ultima rampa in sauna perché ancora imbacuccati come palombari.
Alla malga finalmente ci rifocilliamo: siamo ancora a digiuno, diamo di piglio al Teroldego, che nel frattempo è diventato granita, e agli involtini di pollo. Il ritorno in sci avviene senza particolari problemi, a parte una “seduta a strascico” per frenare su un costone, e un volo con inginocchiata di Ansiak che nella caduta rovinosa rompe addirittura una scarpa (!), per fortuna non in modo irrimediabile.
Insomma è andata bene: un’esperienza dura che però ci ha permesso di capire, anzi di sperimentare, che con un riparo minimo si può sopravvivere all’aperto in pieno inverno con temperature molto rigide. Secondo una nostra stima nella nottata, erano i famosi Giorni della Merla, la temperatura è scesa ad almeno -18°.
Quella che nelle intenzioni doveva essere una confortevole nottata in truna si è tramutata, non volendo, in una vera e propria prova di sopravvivenza. Se in futuro ci dovesse capitare un bivacco forzato in qualche modo sapremmo cavarcela, soprattutto psicologicamente. Resta la curiosità di sapere come sarebbe stata quest’esperienza in una truna realizzata a regola d’arte. Sarà per la prossima volta. Forse
testo e foto di Agh
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